PLOTINO: FUGA DA SOLI VERSO IL SOLO

PLOTINO: FUGA DA SOLI VERSO IL SOLO
come una fiamma che brilla
nel turbine della tempesta

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Plotino trascorse l’ultimo periodo della sua vita nella sofferenza e nella solitudine. Dapprima, all’inizio del 268, se ne va Porfirio discepolo, biografo e curatore delle Enneadi, su invito dello stesso Plotino. Poi lo abbandona Amelio, un altro discepolo prediletto. Solo Eustochio gli rimase accanto fino alla morte, avvenuta nella tenuta rustica di Zethos in Campania, dove Plotino si era rifugiato al sopraggiungere della malattia.

Porfirio ha raccolto questa testimonianza: «Pur essendo afflitto spesso da coliche, né tollerò lavaggi – diceva che a lui, vecchio com’era, non conveniva sottoporsi a tali cure – né s’indusse mai a ricorrere al rimedio della teriaca, ché anzi – diceva ancora – neppure dalla carne degli animali domestici egli traeva il nutrimento. Rifuggiva dai bagni che sostituiva con quotidiani massaggi, a casa; ma quando la peste, infuriando, portò via le persone a ciò addette, egli trascurò tale cura e si procurò così, a lungo andare, una fierissima angina. Veramente, finché gli fui vicino, non si era manifestato ancora sintomo alcuno; ma, dopo che io feci vela, la malattia infierì talmente – a quanto me ne riferì, al mio ritorno, Eustochio, l’amico che gli restò accanto sino alla morte – da togliere anche alla voce quel suo timbro vibrato ed armonioso: parlava rauco; la vista gli s’annebbiò; le mani e i piedi si copersero di piaghe. Per questo, ed anche perché gli amici ne sfuggivano l’incontro – egli aveva l’abitudine di salutarli tutti baciandoli – si allontanò dalla città e, recatosi nella Campania, andò a dimorare nella tenuta rustica di Zethos, vecchio amico suo, allora, però, già morto. Il necessario per vivere non gli era solo fornito dai beni di Zethos, ma gli proveniva anche da Minturno, da quelli di Castricio; poiché a Minturno Castricio aveva le sue proprietà. E venne a morte. Eustochio dimorava allora a Pozzuoli e perciò giunse tardi – me lo raccontò lui stesso – al capezzale del maestro. Che disse: “Vedi: t’ho aspettato!”. Aggiunse poi che cercava di far risalire il divino ch’è in noi al divino ch’è nell’universo; e mentre un serpente sgusciava sotto il letto in cui giaceva il filosofo e si nascondeva in un buco ch’era là nel muro, egli rese lo spirito. Aveva – al dire di Eustochio – sessantasei anni; si era alla fine del secondo anno del regno di Claudio. Quand’egli mori, io, Porfirio, dimoravo a Lilibeo; Amelio in Apamea di Siria; Castricio a Roma; solo Eustochio gli fu accanto».

Pierre Hadot, nella suo saggio Plotino o la semplicità dello sgaurdo,  ha collegato questa descrizione della morte solitaria di Plotino ad un pensiero di Pascal: «Siamo buffi ad affidarci alla compagnia dei nostri simili: miserabili come noi, impotenti come noi, non ci daranno nessun aiuto; si morirà da soli. Dobbiamo, dunque, fare come se si fosse soli».

Plotino si era preparato alla sofferenza sulla scia dello stoicismo. Il saggio deve rimanere libero rispetto alle circostanze esterne: «E le sue (del saggio) sofferenze personali? Quando sono violente le sopporterà finché potrà; quando superano la misura lo vinceranno. Non susciterà pietà con le sue sofferenze; la fiamma che è in lui brilla come la luce di una lanterna nel violento turbine dei venti e della tempesta».

Questo atteggiamento di totale libertà interiore viene illustrato da Plotino con l’immagine della lira: «Il saggio si occupa del suo io terreno e lo sostiene, per tutto il tempo possibile, come fa un musicista con la sua lira, finché non è fuori uso. Se la lira non funziona più, cambia strumento o rinuncia a suonarla, smette di usarla perché ora ha altro da fare, senza la lira. La lascia quindi a terra. Non la guarda più. Canta senza accompagnarsi con uno strumento. Eppure questo strumento non gli è stato dato per nulla, all’inizio. Lo ha suonato molto spesso». Hadot commentando questo pensiero di Plotino ha scritto: «Com’è personale, però, l’ultima riga! Come esprime bene la dolcezza intima di Plotino! Nessuna irritazione contro questo corpo che lo fa soffrire, che è ormai fuori uso e di cui sta per spogliarsi! Presto non ne rimarrà più nulla. Presto Plotino sarà in grado di cantare senza accompagnamento. Ma cosa potrà mai rimproverare al suo corpo? Era una lira, una bella lira, e gli ha reso molti servizi».
Ambrogio, vescovo di Milano, grande cultore della filosofia plotiniana, nel suo  De Jacob et vita beata, scritto probabilmente nel 386, ha detto: «Chi ha l’abitudine di accompagnarsi con la cetra, se vedrà il suo strumento in pezzo, con le corde rotte, spezzato, fuori uso, lo butterà via, non vi ricercherà più i suoi ritmi e si accontenterà della propria voce. Così il saggio: lascerà a terra la cetra del suo corpo divenuto inutile; si ricreerà nel suo cuore».
Con l’immagine della cetra Ambrogio ha ripreso, dunque, lo stesso pensiero di Plotino.

Questa è la sorte degli uomini beati: prendere congedo dal corpo e da tutto ciò che è caduco, iniziare il «distacco dalle cose di quaggiù – come si legge al termine delle Enneadi – vita che non si compiace più delle cose terrene, fuga da soli verso il Solo (φυγὴ μόνου πρòς μόνον)».

Lorenzo Cortesi

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